Centro documentazione territoriale Maria Baccante

La fabbrica

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La fabbrica Cisa Viscosa (dal 1939 Snia Viscosa)

La storia dello stabilimento di via Prenestina si intreccia inevitabilmente con la storia economica e sociale della città di Roma negli anni successivi alla prima guerra mondiale. A Roma si registrava un notevole incremento demografico, dovuto tra le altre ragioni all’immigrazione dalle zone circostanti e dalle altre regioni. Chi veniva a lavorare a Roma trovava lavoro principalmente nell’edilizia, ma anche nei pubblici servizi ed in quelle fabbriche, non molte in verità, che comunque nascevano in quegli anni. In tal modo si formavano nuclei di abitazioni spontanei, soprattutto lungo la via Prenestina e la via Casilina perché in quelle zone si trovavano diversi stabilimenti industriali di medie e grandi dimensioni, non solo la Viscosa, insediatasi a partire dal 1922 ma, ad esempio, il pastificio Pantanella, in via Casilina vecchia, di vecchio impianto ma recentemente rimodernato, nei pressi di Porta Maggiore o la Farmaceutica Serono, già presente da qualche tempo al ponte Casilino. La politica di ristrutturazione del centro di Roma voluta dal fascismo comportò inoltre l’espulsione dal centro di Roma di migliaia di persone, parte della quali andò ad abitare nelle borgate pianificate dal fascismo (come la Borgata Gordiani), che iniziarono quindi a sovrapporsi ai quartieri spontanei già esistenti.

Un’altra caratteristica importante della storia della fabbrica è quindi che al proprio interno si incroceranno continuamente “grande storia” e “piccola storia”. Questa caratteristica è particolarmente evidente quando dopo il 1929 gli effetti della crisi economica internazionale si riverseranno sugli operai della fabbrica. La Viscosa aveva al suo interno molto capitale americano ed era legata a commesse e dinamiche commerciali internazionali: sentirà quindi moltissimo gli effetti della crisi. Basta pensare che se lo stabilimento nel 1930 aveva 2383 addetti, questi diventeranno solo due anni più tardi 1339 : più di mille persone licenziate.

La fabbrica verrà salvata soltanto grazie agli aiuti statali, legando ancora di più il suo destino a quello del regime fascista. Lo stabilimento infatti nel corso degli anni diventa sempre più legato alla politica economica del regime. Esso diventa uno dei motori fondamentali dell’autarchia e in seguito – parallelamente all’economia di guerra voluta dal regime – alla politica di guerra, legata prima alla guerra d’Etiopia e poi alla seconda guerra mondiale. Alla Viscosa vengono prodotte – ad esempio – le uniformi militari che in centinaia di migliaia di esemplari vengono inviate al fronte, ma anche molte altre infrastrutture necessarie alla guerra. Lo stabilimento viene anche bombardato dagli Alleati nel marzo 1944.

Il rapporto tra la produzione e la guerra potenzia la fabbrica finchè l’Italia è impegnata nelle operazioni militari. Ma questo legame è per la Viscosa anche la causa della sua fine. Finita la seconda guerra mondiale si avvia un lento declino, che porta lo stabilimento ad avere 1600 operai nel 1949 e appena 120 nel 1953, fino alla chiusura del 1955.

Gli spazi, la produzione, i reparti, i macchinari

La seta artificiale (che dagli anni Venti cominciò ad essere chiamata raion) poteva essere prodotta secondo quattro differenti procedimenti tecnici.

Il procedimento alla viscosa (quello impiegato nella fabbrica romana, che era comunque quello più diffuso) fu brevettato in Inghilterra alla fine dell’Ottocento ed impiegato per la prima volta in Italia tra gli anni Dieci e Venti del secolo successivo.

La materia prima impiegata era la cellulosa del legno, che arrivava alla fabbrica sottoforma di fogli. Questi erano inseriti in un bagno di soda caustica e pressati, al fine di trasformare la cellulosa in un prodotto dalla viscosità più elevata, l’alcalicellulosa.

La sostanza ottenuta veniva lavorata dai disintegratori e lasciata poi per alcuni giorni in recipienti di maturazione, fino al reparto successivo, quello dei baratti, grossi cilindri di ferro a chiusure ermetiche, dove questa si trasforma in una pasta di colore giallo-arancio, lo xantogenato di cellulosa, grazie all’azione di una sostanza molto tossica, il solfuro di carbonio.

Per ottenere un prodotto dalle caratteristiche comuni, si mescolavano assieme diverse lavorazioni nei mescolatori, dove avveniva anche la maturazione e quindi la trasformazione in viscosa.

Passando attraverso le filiere, la viscosa assumeva la forma di un filamento e veniva arrotolato su delle bobine. Il reparto successivo era quello del lavaggio, a cui seguiva una prima essiccazione, e in seguito l’operazione di torcitura, dove diversi filamenti erano lavorati assieme per formare il filo di raion.

Gli ultimi procedimenti erano quelli dell’aspatura (dove il raion era raccolto in matasse), del candeggio e della scelta (dove, in base alle caratteristiche del prodotto, il filo ottenuto era separato e preparato per la spedizione).

Dai primi anni Trenta, cominciò ad essere prodotto, accanto al filo, anche un altro prodotto: il fiocco. Era una fibra corta, prodotta con lo stesso procedimento tecnico, ma tagliata secondo lunghezze prestabilite, che poteva essere quindi lavorata anche dai macchinari delle industrie tessili tradizionali.

La produzione era continua e gli operai erano organizzati secondo tre turni di otto ore ciascuno, più gli straordinari, sempre piuttosto frequenti. Gli uomini lavoravano nei primi reparti, quelli chimici, dove i fogli di cellulosa venivano trasformati in viscosa, una sostanza vischiosa. Nei reparti meccanici, dove la viscosa era lavorata fino a renderla filo, stavano le donne.

La salute dei lavoratori risentiva profondamente del contatto con le sostanze utilizzate e dell’organizzazione del processo produttivo. L’inalazione di solfuro di carbonio, elemento indispensabile alla produzione di viscosa, fu all’origine di numerosi casi di solfocarbonismo professionale, una malattia che dava disturbi neurologici. Per alcuni operai tale intossicazione significò anche un percorso obbligato dalla fabbrica al manicomio provinciale di S. Maria della Pietà. Operai ed operaie, per il tempo dell’intossicazione (che poteva durare anche degli anni) venivano rinchiusi in manicomio, senza che la causa della malattia il più delle volte venisse denunciata e soltanto in parte era possibile averne il rimborso assicurativo.

Il lavoro femminile

Nella fabbrica lavoravano principalmente donne.

Tra il 1938 e il 1955, il 70,1 % della forza lavoro impiegata nella fabbrica era rappresentata da donne: infatti il reclutamento degli uomini in guerra aveva determinato un ulteriore incremento della già forte presenza femminile.

Le donne lavoravano come operaie nel reparto tessile: la loro paga era inferiore a quella degli uomini, impiegati nel settore chimico, perché il loro lavoro era considerato meno specializzato.

La fabbrica era stata ideata come uno spazio totale, che tendeva a regolamentare e disciplinare ogni momento della vita degli operai, anche il tempo libero: venivano organizzati per le operaie corsi di cucito, ricamo, attività domestiche ed educazione fisica.

Per le lavoratrici che provenivano da fuori Roma e non avevano amici o parenti che potessero accoglierle esisteva un dormitorio, ed un asilo nido dove lasciare i bambini durante il lavoro.

Nonostante la presenza di questi servizi, però, la vita delle donne nella fabbrica era durissima: dovevano lavorare su turni sette giorni su sette e avevano poche tutele per la maternità e per la malattia, quindi spesso venivano licenziate o prendevano giorni di sospensione perché dovevano assentarsi per accudire i figli o qualche parente malato (tutta l’attività di cura e di assistenza della famiglia, spesso allargata e composta anche da genitori e parenti vari, era in quel periodo una responsabilità esclusivamente femminile) , oppure perché loro stesse si ammalavano. Se aspettavano un bambino per non perdere il posto erano costrette a lavorare quasi fino al nono mese.

Potevano essere assunte anche molto giovani, intorno ai 16 anni, e il loro percorso lavorativo era fortemente precario e completamente determinato dalle necessità e dalle convenienze delle politiche aziendali, per cui potevano essere assunte e licenziate più volte.

Esisteva un controllo rigido per evitare che portassero via materiale dai reparti, ma nonostante questo le operaie spesso riuscivano a sottrarre delle stoffe con cui poi facevano vestiti per i loro cari.

Anche all’interno del reparto i controlli erano pesanti e il ritmo di lavoro serrato; le infrazioni al regolamento disciplinare venivano punite con multe o sospensioni detratte dalla paga. Le infrazioni più frequentemente contestate erano: lentezza del lavoro, assenza ingiustificata, lavoro trascurato, chiacchiere e risa, abbandono temporaneo del posto di lavoro (magari per andare al bagno), anomalie nelle timbrature di entrata e di uscita.

Le prime lotte in fabbrica

Nel dicembre del 1924 gli operai e le operaie della Viscosa entrarono in sciopero in seguito alla richiesta di aumento dell’indennità per il caro-viveri ma in risposta ottennero solamente una nuova forma di retribuzione che non garantiva il minimo delle paghe percepito.

Vennero evidenziate e denunciate le modalità anomale dello sciopero operaio della Viscosa: il lavoro venne infatti improvvisamente sospeso nei reparti femminili con un procedimento che non aveva precedenti in industrie a lavorazione continua, senza nessuna richiesta da parte della massa operaia e nessuna trattativa.

Le donne infatti, alla notizia di una nuova riduzione salariale, sospesero il lavoro, ma vennero percosse e aggredite dai capi reparto: in seguito a queste colluttazioni le maestranze femminili seguite da quelle maschili abbandonarono con moto spontaneo di protesta il lavoro.

Un altro grande sciopero di cui sono protagoniste le donne avvenne nel 1949, per chiedere adeguamenti salariali, migliori condizioni di lavoro ma soprattutto per difendere i posti di lavoro minacciati da licenziamenti: in quella occasione la fabbrica venne occupata per 34 giorni e l’occupazione fu sostenuta da tutto il quartiere che si mobilitò per aiutare i lavoratori e le lavoratrici in lotta con cibo, informazioni e la presenza fisica davanti ai cancelli.

L’assistenzialismo padronale

Il regime fascista tentò di entrare negli aspetti più diversi della vita degli operai e delle operaie. La fabbrica, come già si è accennato in occasione della descrizione del lavoro femminile, aveva ritmi di produzione e organizzazione del lavoro molto elevati, con un sistema di controllo e di punizione in grado di sorvegliare rigidamente tutto il ciclo produttivo. Accanto alla fabbrica venne creato un sistema articolato di assistenza sociale che dava ai lavoratori una serie di servizi molto importanti (asili, scuole, vitto, alloggi, organizzazione del tempo libero).

Nel creare un rapporto di riconoscenza nei confronti del padrone e dello Stato, si voleva rendere inoffensiva e potenzialmente non pericolosa la classe operaia.

la direzione

mensa impiegati

Le operaie e gli operai (1938-1954): provenienza e formazione

I dati relativi agli operai e operaie impiegati alla Viscosa tra il 1938 e il 1955, evidenziano come il loro luogo di origine fosse prevalentemente il Lazio (49,85%), e in secondo luogo il Veneto (13,62%) e la Puglia (8,87%).

Per quanto riguarda in particolare il Lazio, la maggior parte degli operai e delle operaie era originaria di Roma, e in generale la provincia romana fu quella maggiormente interessata dalle emigrazioni verso la Capitale (81,87%), seguita dalla provincia di Frosinone (7,51%), da quella di Rieti (5,54%) e di Viterbo (3,79%), mentre solo l’1, 29% dei lavoratori e delle lavoratrici era originaria della provincia di Latina.

Non è possibile sapere a questo stadio della ricerca quando esattamente avvennero i flussi migratori verso Roma, se quindi fossero legati o meno alla ricerca di impiego nella fabbrica della Viscosa.

Per quanto riguarda la formazione scolastica degli operai e operaie, i dati relativi al periodo 1398-1954 permettono di cogliere un certo livello di scolarizzazione, anche femminile.

Solo il 3,5 % degli operai e delle operaie, infatti, erano alfabeti, di cui 1/4 uomini e 3/4 donne. Tenendo presente che le donne rappresentano poco più dei 2/3 della forza lavoro e gli uomini poco meno di 1/3, l’analfabetismo risulta essere prevalentemente femminile.

Per quanto riguarda la scolarizzazione elementare, invece, non si evincono delle sostanziali differenze legate al sesso: il 20,4% degli operai e operaie possedeva la terza elementare (di cui 3/4 donne), il 16% aveva la quarta (di cui circa 4/5 donne), il 36,7 % la quinta (di cui poco meno di 2/3 donne), solo il 2,9% aveva la sesta elementare (valore equamente distribuito tra uomini e donne).

Nei titoli superiori si ripresenta con forza la sproporzione tra uomini e donne, sempre tenendo conto che le donne rappresentano i 2/3 della forza lavoro totale: sullo 0,9 % che possedeva il primo anno dell’avviamento professionale, 3/4 erano uomini; sul 6,4 % che aveva un altro titolo superiore, circa 2/3 erano uomini.

Per il restante 13,2 % degli operai e delle operaie si nota che o avevano una formazione elementare di uno o due anni oppure non si è potuto risalire al titolo posseduto.